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Archivio mensile:giugno 2013

L’Algeria nel mirino imperialista

Louisa Hanoune (PT) denuncia: “L’Algeria è l’obiettivo… alcune potenze vogliono instaurare la divisione (“Sahelizzazione”) e la disarticolazione di tutti gli Stati della regione del Sahel. La stampa del Marocco informa che il governo nordamericano ha trattato, alcuni mesi fa, l’installazione di una base militare in Marocco, che ha rifiutato. La stampa interna informa che consiglieri USA hanno per mesi inquadrato, organizzato e addestrato i tuareg e altri miliziani nel nord del Mali. Hanno sposato l’avventura di Al Qaeda e del jihadismo che ha prodotto l’intervento militare francese in Mali, con minaccia diretta sul sud della Algeria. Sono gli stessi funzionari USA che armano e finanziano i seguaci della Jihad in Siria. Vogliono destabilizzare il nostro paese! Tutte le forze algerine devono respingere questa minaccia”. Louisa Hanoune ricorda che nel 2003 il presidente Bush annunciò il Piano chiamato Gran Medio Oriente (GOM), ratificato nel 2006 da Condoleeza Rice, per dividere le nazioni dell’area su basi etniche, religiose e comunitarie. Adesso, questi piani si estendono a tutta la regione del Sahel, in primo luogo all’Algeria. Lo Stato algerino si rifiuta di inviare le sue truppe in Mali o di finanziare questa guerra imperialista. Si rifiuta di rivedere le sue decisioni in materia di investimenti stranieri in Algeria: esse sanciscono che qualsiasi investimento straniero non possa superare il 49%, perché il 51% deve essere algerino. Si rifiuta di rivedere la sua opzione per le nazionalizzazioni o il diritto dello Stato algerino ad espropriare. Ribadisce il suo rifiuto a qualsiasi tipo di ingerenza esterna, come a qualsiasi suo intervento all’estero. Sono queste ragioni che hanno indotto gli USA a dislocare in Spagna, con l’autorizzazione del governo Rajoy, una forza di intervento rapido, in previsione di un caos indotto e previsto in Algeria. Nella base di “Moron de La Frontera” (Siviglia) arriveranno almeno 8 aerei militari e 500 militari delle forze speciali USA, con la missione di intervenire in Algeria per destabilizzarla (Europa press – 22 aprile 2013). Perciò Louisa Hanoune lancia un appello al governo algerino, ai partiti, alle Istituzioni del Paese, alle forze armate, ai cittadini, affinché si mobilitino contro la minaccia di intervento straniero. L’appello è rivolto anche alle Istituzioni internazionali poste a tutela del Diritto internazionale e dei popoli. L’esercito di liberazione nazionale algerino (ENL) e il popolo algerino, 50 anni fa per la conquista della indipendenza del Paese, pagarono un durissimo tributo di sangue, con un milione di morti. Questa indipendenza va difesa oggi, per non ritornare in uno stato di colonizzazione e di sfruttamento. La denuncia e l’appello del PT non è affatto isolato, altre fonti denunciano i piani imperialisti nell’area. “Intervento militare straniero in Mali: i mercenari della Nato puntano alla Siria e all’Algeria” (Fenice Europea) e ancora: “Dopo la Siria, tocca all’Algeria attraverso il Mali”. I mercenari e terroristi che hanno sostenuto gli attacchi Nato contro la Libia, dopo la caduta e la uccisione di Gheddafi, sono stati spostati in Siria, per combattere il legittimo governo di Assad, e in Mali (fronte occidentale). La sigla dei mercenari è LIFG (gruppo combattente islamico libico). Da allora si sono verificati una serie di atti terroristici in Algeria, che confina con il Mali a Sud. Questo terrorismo indotto e la conseguente repressione del governo algerino hanno lo scopo di creare caos e conflitti, come solito pretesto per un intervento esterno. Com’è noto, in Algeria si trovano importanti giacimenti di petrolio, gas e carbone; oleodotti e giacimenti minerari. Si tratta di risorse da rapinare e colonizzare, come già in altri paesi dell’area. In preparazione dell’intervento armato, Bruce Riedel (Brookings Institution), già nel 2011 aveva scritto un articolo dal titolo “L’Algeria potrebbe essere la prossima a cadere”, immaginando una destabilizzazione pilotata del Paese nel segno della “primavera araba”, cioè di una sovversione sostenuta dagli USA e dalla Nato e realizzata dai terroristi armati di Al Qaeda. La Nato, ben consapevole delle conseguenze, sta costruendo in Nord Africa e nel Vicino e Medio Oriente dei “califfati” artificiali, sostenendoli a scapito dei popoli raggirati, mentre viene resa perenne una “guerra globale” perpetrata a danno di milioni di vite distrutte, con un costo sociale ed economico incalcolabile. I “combattenti Jihadisti” sono in realtà una nuova “legione straniera” al servizio dell’imperialismo occidentale, come ai tempi del colonialismo ottocentesco.

Fonte: pickline.it

 

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Gli alberi del dissidio di piazza Taksim

Gli alberi del dissidio di piazza Taksim.

 
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Pubblicato da su giugno 23, 2013 in Uncategorized

 

Gli alberi del dissidio di piazza Taksim

Resistanbul tra manipolazioni e rivendicazioni. Da protesta ecologica contro un piano urbanistico, a rivolta di dimensioni colossali che si sta rapidamente espandendo a tutta la Turchia. Poteva l’amministrazione di Istanbul immaginare il vespaio che avrebbe provocato la proposta di un nuovo assetto per piazza Taksim?

Piazza Taksim, Istanbul, 11.06.2013. La polizia lancia gas lacrimogeni e getti d’acqua per disperdere i manifestanti. Foto Bulent Killic/Getty. Fonte: http://darkroom.baltimoresun.com

Il progetto prevedeva la ricostruzione di una caserma ottomana del 1800, che avrebbe dovuto ospitare prevalentemente un centro commerciale, e in parte un centro culturale. Ultimamente si vocifera anche che gran parte del polmone verde del parco Gezi, ospitato nella piazza, avrebbe dovuto essere sacrificato. L’abbattimento degli alberi del parco è ben presto assurto a simbolo dell’abbattimento dei pilastri della democrazia turca perpetuato dal premier Recep Tayyip Erdoğan e del suo governo islamo-conservatore, almeno nella percezione dei manifestanti. Erdoğan è al suo terzo mandato come primo ministro, per oltre dieci anni di governo assieme al partito AKP (conosciuto anche come “Giustizia e Sviluppo”) da lui fondato nel 2001. Un uomo che da sempre si batte per i diritti dei musulmani, come la rimozione del divieto di indossare il velo islamico in tribunali ed università. Nel 1999 scontò un periodo in prigione, con l’accusa di incitamento all’odio religioso e razziale per aver recitato i versi di una poesia in pubblico. I protestanti manifestano contro un’erosione costante e progressiva dei diritti del popolo turco, in un’ottica di integralismo islamico. Ripercorriamone assieme alcune tappe. Il 24 maggio viene reso effettivo il divieto di pubblicizzare alcolici, unitamente ad una forte limitazione delle vendite di questi prodotti, da ora vietata tra le 22 e le 6 di mattina. Le compagnie del settore saranno costrette ad apporre avvisi riguardanti i pericoli per la salute sul packaging, e i venditori al dettaglio non potranno esporre le bottiglie. Sempre nel mese di maggio, le hostess della Turkish Airlines avevano dovuto eliminare rossetti e  smalti per unghie rossi dalle loro trousse; la compagnia aerea, detenuta al 49% dallo Stato turco, aveva poi dovuto recedere il divieto a causa delle numerose proteste. Le effusioni in pubblico, per quanto non ufficialmente vietate, sono fortemente sconsigliate da un imperativo morale. E l’azienda dei trasporti pubblici cittadini, che grazie ad un comunicato diffuso a fine maggio in cui richiedeva agli utenti di mantenere un comportamento “conforme alle norme morali”, ha scatenato una protesta a suon di baci alla stazione Kurtulus della metropolitana di Ankara.

Il premier turco Erdogan

I giovani turchi, cosmopoliti e istruiti, non subiscono in silenzio. “We will not be oppressed!” urla in lettere maiuscole un annuncio a tutta pagina pubblicato sul New York Times, per iniziativa di tre privati turchi. Giovani che sanno come usare il web e i nuovi media: i 53.800 dollari necessari per l’annuncio sono stati raccolti tramite il sito Indiegogo. Erdoğan nel frattempo se la prende con Twitter e Facebook: l’emittente televisiva privata Ntv riferisce l’arresto di cinque manifestanti ad Adana e di 34 arresti a Smirne, con l’accusa di aver organizzato le proteste degli ultimi giorni con messaggi postati su tali media. Ma d’altra parte, i social network sopperiscono alle mancanze dei media ufficiali della Turchia, che disdegnando largamente la copertura degli scontri non vengono incontro alle esigenze di informazione. È diventato ormai leggendario il documentario sui pinguini mandato in onda dalla CNN Türk la sera del primo grande scontro, il 31 maggio. E quando invece provano a parlare della rivolta, cercano di creare una percezione distorta delle sue dimensioni e importanza. Basta leggere i titoli in prima pagina su turkishpress.com per rendersi conto di come la stampa turca stia gestendo la situazione: viene sottolineata una natura “vandalica” dei protestanti, a cui si appella il premier turco, e delle morti causate dagli scontri si nomina solo quella di un capo della polizia, a mano di “rimostranti illegali”. Nessun accenno agli altri due morti, un giovane attivista dell’opposizione, colpito da un proiettile partito da un blindato della polizia, e un altro manifestante investito da un taxi. Oltre 3.000 i feriti, secondo dati della Turkish Medical Association, ma il numero aumenta di giorno in giorno. Ancora da confermare invece la notizia del decesso di un ragazzino di soli 13 anni, riferita da un reportage della Stampa, che colloca l’avvenimento nella notte tra il 7 e l’8 giugno. Fin dall’800 però la nozione di rivoluzione è stata avvolta da un’aura romantica, che impedisce di essere completamente lucidi nel valutarne le reali motivazioni. Non molti riescono ancora a negare come il presidente USA George W. Bush abbia orchestrato la guerra in Iraq, millantando armi di distruzioni di massa mai trovate. Per non parlare dell’ingerenza occidentale nella rivoluzione libica, e la rapidità con cui Gheddafi, da grande amico, si era trasformato in indiscusso dittatore. Dittatore: già si sente questa parola serpeggiare in Turchia, riferita al premier Erdoğan. In che misura gli scontri sono l’effetto di legittime richieste del popolo di avere un governo meno influenzato dalla religione, e in che misura intervengono interessi esterni? I moti di piazza Taksim potranno anche essere totalmente spontanei, come testimonia il giornalista e attivista politico Avigdor Eskin, ma una manipolazione più sottile del quadro generale non è da escludersi. Alcuni già puntano il dito contro il magnate George Soros, fondatore di numerosi progetti filantropici e dichiarato sostenitore e finanziatore di gruppi pro-democrazia. Soros non nega la parte che ha svolto nel sostenere i movimenti che hanno destabilizzato l’Est Europa nei decenni passati. Già nel 2011, Lisa Graas del David Horowitz Freedom Center evidenziava “l’influenza manifesta” di Soros in Turchia tramite la sua Open Society Foundation, per quanto il miliardario neghi. Secondo il giornalista e scrittore Richard Poe, ogni volta che Soros cerca di destabilizzare un’area applica lo stesso schema, composto da sette punti. Siamo già al sesto punto, l’occupazione delle strade; se lo schema funziona, il prossimo passo prevede le dimissioni di Erdoğan per timore di un intervento NATO. NATO che è già presente in maniera massiccia sul suolo turco, soprattutto dopo l’inizio della guerra civile in Siria. Fin dal suo inizio, il governo turco si era schierato tra gli oppositori  del regime di Assad. Con atteggiamento ostile, il premier Erdoğan aveva previsto la caduta del regime siriano ad opera dei ribelli (l’ironia della sorte!), permettendo l’attivazione di una base NATO ad Incirlik, nel sud della Turchia e ospitando squadre della CIA per controllare l’invio di materiale bellico, fornito da Arabia Saudita e Qatar, come espongono più articoli del New York Times [vedi qui e qui, ndr]. Una presenza ingombrante, insomma, che Erdoğan farebbe bene a tenere d’occhio, considerato anche che Joe Biden , sollecitando Erdoğan a rispettare i diritti degli oppositori, ha affermato: “Il futuro della Turchia appartiene al popolo turco e a nessun altro. Ma gli USA non possono rimanere indifferenti.” Il governo turco sta già strumentalizzando a proprio favore una possibile ingerenza straniera nelle rivolte, che sarebbero causa di “estremisti venuti dall’estero”, a detta del primo ministro turco. Si parla di “spie” di una cospirazione internazionale, catturate tra i manifestanti. Ma è facile dare la colpa unicamente a cause esterne, cadendo nel complottismo gratuito, quando basterebbe aprire un dialogo e fare alcune piccole concessioni. “Nessun governo sopravvive contro il volere del suo popolo,” aveva detto Erdoğan prima della caduta di Mubarak in Egitto. “L’esecutivo ha imparato la lezione – promette il vice primo ministro Bulent Arinç – Non abbiamo il diritto di permetterci di ignorare la gente.” Ma anche se i capi dei governi occidentali tirano un respiro di sollievo, Arinç precisa che le scuse sono rivolte unicamente agli ambientalisti, non ai manifestanti politici. Kadir Topsas, sindaco di Istanbul, ha riconfermato la volontà di ricostruire l’antica caserma ottomana del parco Gezi, ma se non altro – sembra – il progetto si è liberato della prospettiva di un centro commerciale al suo interno. Il fronte dei rivoltosi è frammentato, e manca di organizzazione: due buoni motivi per supporre una conclusione dei moti prima che portino a qualcosa di più grande, a meno che non ci metta lo zampino qualche potere. In ogni caso, i giovani della rivolta ispireranno i giovani di Egitto e Tunisia, dove gli islamisti, ispirandosi al modello turco, sono riusciti a vincere le elezioni. Modello che a quanto pare non era sufficiente per garantire la stabilità.

L’anno prossimo, a marzo, in Turchia sono previste le elezioni; se Erdoğan riuscirà a rimanere in carica fino ad allora, non sembra molto plausibile una sua rielezione, per quanto per adesso goda ancora di buona popolarità. La gente non ha ancora del tutto dimenticato i risultati economici da lui ottenuti negli ultimi dieci anni.

 

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Turchia: pugno duro Erdogan, polizia espugna Gezi Park

 

Riesplode la tensione in Turchia, dopo che ieri sera il premier Recep Tayyip Erdogan ha ordinato alla polizia di prendere d’assalto Gezi Park, sgomberando con la forza l’ultima ridotta a Istanbul della protesta anti-governativa che aveva visto scendere in piazza nei giorni scorsi in tutto il paese decine di migliaia di giovani.
Centinaia di agenti anti-sommossa, appoggiati da mezzi blindati e idranti, sotto una raffica di candelotti lacrimogeni, alle nove di sera hanno attaccato la cittadella costruita dagli ‘indignados’ turchi nel parco, la cui distruzione annunciata aveva scatenato due settimane fa le prime proteste.
La feroce repressione della polizia aveva poi esteso a tutto il paese la ‘rivolta’, trasformandola in contestazione contro il potere autoritario di Erdogan. Poco prima del blitz nel parco simbolo della rivolta anti-Erdogan dei giovani turchi, davanti a decine di migliaia di sostenitori convocati ad Ankara dal suo partito islamico Akp il premier aveva lanciato un ultimatum agli occupanti di Gezi: intimando loro di andarsene subito, altrimenti la polizia avrebbe saputo “cosa fare”.
Due ore dopo l’assalto. Gli agenti sono intervenuti con estrema brutalità. Ci sono stati numerosi feriti e arresti, hanno riferito diversi manifestanti su twitter. Al momento dell’attacco nel parco c’erano, stando alle immagini di Halk tv, anche diversi bambini, alcuni dei quali a loro volta feriti. Un giovane sarebbe stato investito da un blindato della polizia e pare grave. Ferita, da un proiettile di gomma, anche la giornalista russa Aleksandra Bondarenko, della tv Russia Today (Rt).
Le ambulanze, secondo i dimostranti, non sono state autorizzate a entrare nel parco, dove gli agenti si sono accaniti tra l’altro sull’infermeria e sui medici. L’accesso a Gezi è stato vietato anche ai giornalisti. Subito dopo la conquista della zona da parte delle forze anti-sommossa, sono entrate in azione le ruspe della polizia che hanno iniziato a smantellare tende e strutture costruite dagli ‘indignados’.
Il blitz ordinato da Erdogan riaccende la tensione nel paese: a tarda sera in migliaia sono tornati a radunarsi su uno dei viali di accesso verso Taksim, oltre il ponte sul Bosforo, dove sono state erette barricate e si segnalano nuovi scontri con la polizia. Migliaia in piazza pure ad Ankara. La piattaforma Taksim, che riunisce i 116 movimenti della protesta, ha convocato una manifestazione oggi pomeriggio a Taksim, proprio mentre il partito di Erdogan terrà un secondo comizio, che spera di trasformare in una oceanica prova di forza dei suoi sostenitori, sempre a Istanbul. Su twitter i manifestanti denunciano intanto la brutalità delle forze di polizia e auspicano che oggi a Taksim ci sia un milione di oppositori.
ATS

 
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Pubblicato da su giugno 16, 2013 in Uncategorized

 

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Questa é follia, é guerra contro le persone

16 giugno 2013

Pubblicato da

di Helena Janeczek

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Egemen Bagis, il ministro turco per gli affari con la UE, ha annunciato ieri sera che chiunque si avvicinerà a piazza Taksim sarà «trattato dalla polizia come un terrorista». La dichiarazione sembra un avallo ex post dello stato della repressione già in atto. Le testimonianze, i video e le foto da Istanbul parlano di ustioni e piaghe causate da sostanze chimiche mischiate all’acqua degli idranti, di attacchi alle strutture di pronto soccorso, di due pesantissime irruzioni con lacrimogeni nel lussuoso Hotel Divan, rifugio per feriti e manifestanti del vicino parco Gezi. Bambini sanguinanti, un uomo travolto da una camionetta della polizia antisommossa. Impedimenti per giornalisti (anche stranieri) e personale medico di accorrere alle zone degli scontri. Traghetti e ponti sul Bosforo bloccati per chiudere l’afflusso dei manifestanti dalla parte asiatica della città. Legge marziale, in pratica. La leader del verdi tedeschi Claudia Roth, intrappolata nell’Hotel Divan dopo lo sgombero di Gezi, ustionata in volto dai lacrimogeni (o da altro), ha parlato di follia, di guerra contro i cittadini. La Turchia è nota per le sue violazioni dei diritti umani però non è l’Egitto di Mubarak o l’Iran dove ieri, al primo turno, è stato eletto presidente Hassan Rohani, il più moderato degli ayatollah ammessi alla competizione. È una democrazia – con molte tare ma non un’innegabile “democratura”: tant’è che le

manifestazioni più che pacifiche contro il progetto di costruzione di un centro commerciale sul luogo del parco Gezi mostravano, al principio, una grande consonanza con le proteste diffuse nelle cosiddette democrazie avanzate: da Stoccarda alla Val di Susa. E mostrano pure inquietanti analogie nell’impiego sproporzionato della repressione poliziesca; per quanto ciò che sta accadendo in Turchia – cinque morti accertati, quasi un centinaio di avvocati arrestati ecc.- sia sinora il peggio. Ma prima, dopo e durante Occupy Gezi, nelle ultime due settimane è avvenuto questo: Il 1° giugno a Blockupy Francoforte, la protesta contro le politiche BCE, la testa del corteo autorizzato è stata accerchiata e tenuta per ore sotto scacco. L’uso massiccio di spray urticanti e di manganelli ha causato ca 300 feriti, alcuni piuttosto gravi. Anche in quel caso diversi volontari sanitari parlano di impedimenti a prestare soccorso. In Italia la sentenza assolutoria per la polizia sulla morte di Stefano Cucchi è arrivata in contemporanea con le teste lacerate degli operai e del sindaco di Terni in corteo contro la chiusura dell’acciaieria. Mentre in Turchia partiva lo sgombero di piazza Taksim e parco Gezi, la Cassazione ha confermato, riducendo i risarcimenti alle parti lesi, della sentenza su Bolzaneto e le violenze alla scuola Diaz. A ridosso di tutto questo, si è scoperto il gigantesco programma di spionaggio “Prism” voluto da Obama, il governo greco ha deliberato la chiusura della tv e radio di Stato ERT, arrivando a chiudere il segnale nel giro di poche ore e mandando la polizia antisommossa a difendere la propria decisione. A Saõ Paolo del Brasile, paese economicamente emergente al pari della Turchia, la protesta per l’aumento dei prezzi del trasporto pubblico ha causato una repressione poliziesca molto dura, con 250 arresti e 50 feriti. L’eccesso di impiego della forza di polizia è una ormai una costante planetaria – in tutta Europa come a New York e negli Usa – e questo sia nel caso che vi sia stata violenza da parte dei manifestanti sia quando le pratiche di resistenza passiva sono state portate avanti senza alcun cedimento. Ma rappresenta soprattutto una costante che tutte queste proteste nascono dalla volontà popolare di difendere dei beni comuni (lo sono sia gli alberi dei parchi e le valli subalpine che i biglietti degli autobus) o di arginare il potere di poteri sottratti al controllo democratico, come le istituzioni bancarie e monetarie. Non c’è nessuna volontà di sovvertimento rivoluzionario-  eppure i governi democratici di vario stampo e colore politico difendono a forza di lacrimogeni, manganelli o proiettili di gomma i “flussi” (ossia gli interessi mobili e flessibili) contro i “territori” (e la gente che ci abita), come Marco Revelli cerca di circoscrivere questa nuova forma del conflitto ai tempi della globalizzazione e della sua crisi. Oggi a Istanbul le proteste cercheranno di dirigersi nuovamente verso i luoghi tabù sgomberati e, visto che è stata indetta pure una manifestazione pro-Erdogan e in molti quartieri nella notte si sono erette barricate, la giornata potrebbe evolversi in modo assai peggiore di ieri. Finora non sono arrivate critiche decise né dall’Unione Europea, né da Barack Obama, entrambi vincitori di un Premio Nobel per la Pace che appare sempre più tragicomico. Barbara Spinelli, riferendosi principalmente a “Prism”, ha parlato di ostilità dei governanti e di “paura del popolo”. Il popolo, ovunque esso si trovi, sta incontrando sempre più motivi per ricambiare.

Ps. Mi sono certo dimenticata qualche voce del triste elenco. Ma non dimentico di segnalare questa lettera bellissima di Gianluca d’Ottavio che vive a Istanbul e si occupa di turismo.

Pps. L’immagine sopra ritrae la polizia mentra da fuoco all’albero del Parco Gezi nel quale gli occupanti avevano iscritto i loro auspici e desideri.

 
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Pubblicato da su giugno 16, 2013 in Uncategorized

 

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